LA SPECIE IMPRENDITORIALE E LA SUA TUTELA di Sauro Pellerucci


2. Sulla pari dignità dei cittadini
In una Nazione che si ispira a valori democratici, la qualità di cittadino viene acquisita all’atto/momento della nascita e permette/consente l’accesso ad una società in cui rispettare i doveri ed in cui far rispettare i propri diritti. Doveri e Diritti, convivenza civile ed uguaglianza di fronte alla Legge.

Poniamo il caso che il paese che ci ospita, oltre ad ispirarsi a tali valori democratici, abbia anche la ferma intenzione di attuarli. Allora, non ci sono dubbi, al momento della nascita entriamo a far parte di una comunità di individui grati alle precedenti generazioni che debbono aver combattuto con successo contro i tentativi egoistici del sopruso, dell’estromissione e del dominio della classe dirigente.
Tale società ha generato una Repubblica basata sulla famiglia e sul lavoro.
Ecco un altro parallelo funzionale che i legislatori del paese ospitante hanno reso operante/operativo. Le due basi determinano singoli momenti di creazione e ripetute azioni di conservazione e sviluppo.
La libera iniziativa di generare od intraprendere è riconosciuta come facoltà presente e/o futura.
Tale libertà contempla, ovviamente, la facoltà di non avviare/intraprendere alcuna attività economica senza pregiudicare il diritto costituzionalmente garantito di accedere al mondo del lavoro tramite l’attività economica intrapresa liberamente da un altro cittadino libero di scegliere.
Quindi la libera scelta imprenditoriale e la libera scelta non imprenditoriale, per impossibilità o mancanza di motivazioni, compongono le principali direttrici sulle quali si muove il libero arbitrio applicato al mondo del lavoro.
I rappresentanti della collettività, eredi dell’ottima gestione della cosa pubblica delle precedenti generazioni, sanno bene che l’equilibrio tra queste due diverse libere scelte/vocazioni è molto delicato e che rappresenta il fulcro politico-economico intorno al quale si regge la pace sociale.
Chiunque non riconosca tale semplice regola partecipa ad attentare alla serenità collettiva.
Evidentemente, lo scarseggiare o l’eccedere di rappresentanti dell’una o dell’alta scelta determina uno squilibro che rende non più libera la scelta di alcuni, o di molti, individui.
Poniamo il caso in cui un numero troppo alto di cittadini scelga di partecipare alle attività intraprese dagli altri cittadini. Il risultato di tali numerose libere scelte determina una semplice conseguenza: alcune di esse non possono essere soddisfatte, perché insufficiente è il numero delle libere scelte effettuate nella direzione dell’imprenditorialità.
Non se ne può proprio fare una colpa né ai rappresentanti dell’una né a quelli dell’altra categoria.
I rappresentanti della collettività, però, sanno bene come intervenire e creano le condizioni affinché la scelta imprenditoriale risulti maggiormente allettante per un numero maggiore di individui.
Il neonato cittadino, di cui sopra, non avrà da temere per il proprio futuro e godrà di pari opportunità rispetto alla totalità dei suoi coetanei.

A questo punto della lettura potrei venire già etichettato, definito e classificato. Questo piccolo trattato chiuso, bollato e riposto nel luogo dei cattivi investimenti.
Bene, è evidente che il paese che ospita il lettore non ha ancora avuto la “ferma intenzione di attuare i principi democratici ai quali, forse, si ispira”. Comprendo il gesto ma avverto che la motivazione dello stesso non è riconducibile né alla libera scelta di scrivere queste pagine né alla libera scelta di leggerle. Le motivazioni sono forse da ricercare tra le precedenti generazioni che hanno popolato e diretto la nazione.
Permettetemi di parlarvi della nazione che ospita me e nella quale godo dei diritti concessimi.

Per onestà intellettuale chiarisco subito un punto: faccio parte della categoria di cittadini che sceglie di intraprendere un’attività economica. Dicasi imprenditoriale. Nel caso specifico di imprenditore di prima generazione. PMI, per intendersi.
Chiedo di essere ascoltato come testimone a conoscenza dei fatti.
Sono stato dipendente pubblico e dipendente privato.
Sono stato figlio in una famiglia assistita dallo Stato Italiano tramite la pensione di invalidità civile riconosciuta a mio padre per la sclerosi multipla che lo ha affetto dall’età di 30 anni.
Sono sempre io e voglio testimoniare per la tutela della specie imprenditoriale.

Supponiamo che lo Stato che mi ospita riconosca nella libera scelta imprenditoriale di un individuo un principio di diffusione del benessere ed un interesse pubblico. Supponiamo che, nello fattispecie, tale scelta sia etica e che rientri tra le attività che lecitamente possono essere svolte in questo Stato.
Suppongo che tale scelta non possa essere additata, screditata e considerata dannosa dal resto della collettività.
Suppongo che la figura imprenditoriale che ne scaturisce debba essere indicata ad esempio, supportata e stimolata per la crescita dimensionale.
Suppongo un sacco di cose, lo so, sono presupponente.
Avrei voluto supporre di non divenire la controparte di alcuno ma, al contrario, di divenire io stesso strumento di crescita per altri. E gli altri per me, è ovvio, sono un imprenditore, o no? Circolo virtuoso, direi.
E no, invece. Sono la controparte dei miei dipendenti. Chi sono i miei dipendenti? Paola, Giovanna, Marco, ecc., beh, sì, i ragazzi con i quali ho iniziato l’attività. Io ho impegnato tutti i miei risparmi, le competenze e tanto lavoro, loro le competenze ed il lavoro in cambio di uno stipendio. Inizialmente non mi sembra che avessero una qualifica ma solo una paga oraria a forfait, se non ricordo male. Ma forse ricordo male.
Inizialmente tutti, gomito a gomito, a produrre ben oltre le rispettive capacità. L’azienda va bene, insomma, si sorregge. Poi si regolarizzano le posizioni, si effettuano le assunzioni, le postazioni lavorative vengono messe a norma di legge, le ore di lavoro straordinarie si riducono e poi scompaiono. Le prime maternità, l’ambiente che resta familiare, poi l’assuefazione al “successo” e le prime giuste rivendicazioni “sindacali”.
Questo passaggio è decisamente interessante, il gruppo di lavoro si spacca e diventa azienda.
Da una parte i soci lavoratori, gli “imprenditori”, dall’altra i dipendenti. Gli obblighi e le tutele.
Improvvisamente ci si risveglia controparte, perché la lotta di classe c’è e ci deve essere. E se il difficile compito ha permesso di creare lavoro da svolgere per la forza lavoro, deve aver creato anche una classe “patronale”.
A ben guardare questo conflitto non nasce all’interno degli uffici, no. Lì cresce ma nasce altrove, dove è giusto che nasca. Vede la luce tra i Regolamenti Attuativi Normativizzanti la Tutela dell’Individuo Lavoratore che io non riesco a considerare ingiusti e dannosi. Anzi credo siano quanto di più giusto fosse prevedibile per evitare il leggero ingobbimento dovuto a posture sbagliate assunte davanti ad un monitor o a prevenire l’affaticamento della cornea tipico dell’operatore al computer.
Continuo a testimoniare e testimonio che tali aberrazioni lavorative, giustamente impedite al dipendente, non producono in me alcun senso di nausea. Né in me, né negli altri rappresentanti della classe patronale nella qualifica di “soci lavoratori” presenti in azienda, che si ritrovano così costantemente davanti al monitor da farmi sembrare che ogni quarto d’ora di pausa riconosciuto ai dipendenti venga poi, effettivamente, traslato nelle retine di questa classe patronale.

Ben povera la mia azienda che trasforma la sua Dirigenza in sostituti dei propri dipendenti oberati nel rispetto della salvaguardia della propria salute.
“Dev’essere l’azienda più povera al mondo” – pensai.
Ora che ho avuto modo di confrontarmi con numerose realtà imprenditoriali, mi è difficile continuare a pensarlo.
Un turbinio di pensieri affolla la mia mente, penso alla decadenza industriale dell’Occidente, alle Tutele rese più interessanti delle opportunità, alla folla di disoccupati che affollano le nostre piazze, penso alle mie preoccupazioni da imprenditore ed alla mia famiglia, che frequento così poco.

Voglio solo pormi e porre due domande: Perché? – e poi – Quanti altri dopo di me?
Alla prima domanda è mio interesse trovare le risposte. La seconda è di interesse generale.
Ma se alla prima domanda io non riesco a trovare risposte significative ed esaustive temo di saper dare una precisa risposta alla seconda, di domanda, una risposta molto riduttiva.
Vediamo quali risposte potremmo aspettarci da un imprenditore alla prima domanda:
- perché nel dirigere e gestire l’azienda sento in me il potere;
- perché è il miglior passatempo che sono riuscito a costruirmi;
- perché ormai ci sono dentro e non posso uscirne, neanche economicamente;
- perché guadagno moltissimo sia in termini di reddito che di capitale;
- perché tramite la mia opera molte famiglie possono contare su di uno stipendio;
- perché mi ha assorbito a tal punto che è l’unica realtà che mi è rimasta.
Ma conoscere le reali motivazioni che muovono un imprenditore è pressoché impossibile, per tre ordini di motivi:
- renitenza ad ammettere l’insuccesso;
- incapacità di separare la propria persona dalla propria opera;
- mancanza di una analisi scevra dall’emotività.

(dicembre 2003 - novembre 2004)


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